venerdì 22 dicembre 2017

I bigotti dell'ideologia


Abbiamo pescato in rete questo brano di Christopher Lasch (da "La ribellione delle élite. Il tradimento della democrazia", Feltrinelli, Milano, 1994):
“La condizione di crescente «insularità» delle élite significa, tra l’altro, che le ideologie politiche tendono a perdere i contatti con la realtà. Dal momento che il dibattito politico è limitato, nella maggior parte dei casi, a quelle che sono state acutamente definite le «classi parlanti», esso tende a crescere su se stesso, a ridursi a un mero insieme di formule. Le idee circolano esclusivamente sotto forma di pettegolezzi o di riflessi condizionati. La vecchia contrapposizione tra destra e sinistra ha esaurito la propria capacità di chiarire i problemi e di fornire una mappa fedele della realtà. In certi ambienti, l’idea stessa di realtà è stata messa in discussione, forse perché le «classi parlanti» vivono in un mondo artificiale, in cui la simulazione della realtà ha preso il posto delle cose in sé. Le ideologie di destra e quelle di sinistra, comunque, sono ormai così rigide che le nuove idee hanno ben poco impatto sui loro aderenti. I fedeli, che, di norma, si rifiutano di prendere in considerazione gli argomenti e gli eventi che potrebbero mettere in discussione le loro convinzioni, non cercano più di impegnare gli avversari nel dibattito. Le loro letture consistono, nella maggior parte, di opere scritte da un punto di vista identico al loro. Invece di impegnarsi su argomenti non familiari, si limitano a classificarli come più o meno ortodossi. La denuncia della deviazione ideologica, da una parte e dall’altra, assorbe una quantità sempre maggiore di energie che potrebbero essere meglio investite nell’autocritica. D’altronde, proprio il fatto che le capacità di autocritica si stiano esaurendo è una delle caratteristiche più evidenti di una tradizione intellettuale moribonda. Gli ideologi di destra e di sinistra, invece di affrontare gli sviluppi politici e sociali che tendono a mettere in discussione le verità rivelate tradizionali, preferiscono scambiarsi reciproche accuse di fascismo e di comunismo, in spregio dell’ovvia constatazione che né il fascismo né il comunismo rappresentano esattamente il futuro. E la loro visione del passato non è meno distorta di quella dell’avvenire”.


L'analisi di ideologi e ("fedeli"-militanti) di destra e sinistra mentalmente prigionieri di una coazione a ripetere che impedisce loro di leggere la realtà e li confina in una pratica "religiosa" è quanto mai azzeccata. Abbiamo avuto modo di verificare personalmente, in passato nel corso della nostra attività politica e attualmente in occasione delle presentazioni del nostro libro in varie zone d'Italia, quanto questi individui, uomini e donne, possano essere "bigotti" e chiusi a qualsiasi lettura della realtà diversa da quella delle loro rispettive "Sacre Scritture". Legati fideisticamente al "Verbo" della loro "Chiesa", replicano ragionamenti e comportamenti appresi in partiti, movimenti e gruppi politici di varia natura accontentandosi -  in occasione di elezioni e quesiti referendari - di continuare a cantar messa come sanno. 
La natura "religiosa" di ideologie e partiti era già stata analizzata più di mezzo secolo fa da Simone Weil e Bertrand Russell (all'argomento il nostro "Democrazia davvero" dedica un ampio capitolo), dunque Lasch non scopre niente di nuovo. La sua riflessione, se dobbiamo valutare dal titolo del libro (che non abbiamo ancora letto), è a sua volta prigioniera della convinzione che il nostro attuale sistema politico sia una democrazia, mentre chi ha letto "Contro le elezioni" di David Van Reybrouck (Feltrinelli, 2015) o il nostro saggio sa che si tratta con tutta evidenza di una oligarchia scientemente voluta, per colmo dell'ironia, proprio per evitare qualsiasi forma di reale democrazia.




Il fatto che il libro di Lasch sia di più di venti anni fa dice comunque molto sull'incapacità delle élite politiche (come degli attivisti) di cambiare e aprirsi a nuovi scenari. E non parliamo soltanto di una generazione rimasta segnata dal '68, ma anche di giovani che trovano facile conforto nelle liturgie degli opposti schieramenti e un riposante approdo in "appartenenze" che risparmiano loro la fatica del pensiero autonomo. Non è il nostro caso né, per fortuna, quello di un numero crescente di persone attirate dalla proposta di farla finita con l'attuale oligarchia e passare finalmente a una reale democrazia.



(I libri di cui abbiamo parlato sono acquistabili qui, qui e qui.)

lunedì 20 novembre 2017

La democrazia debutta a teatro


Se è vero che un'immagine vale mille parole, ora sappiamo che le vale anche una pièce teatrale.
L'atto unico scritto da Maila Nosiglia sulle tematiche del saggio "Democrazia davvero" di cui è coautrice ha debuttato domenica 19 novembre al teatro Franco Parenti di Milano dimostrandosi più efficace di qualsiasi normale presentazione.





Se con quest'ultima, infatti, è difficile riuscire a scalfire le resistenze mentali che praticamente chiunque oppone d'istinto a una proposta di cambiamento come quella avanzata dal nostro libro, ma anche solo all'idea che quella che ci hanno abituato a chiamare democrazia in realtà non lo sia, il "Dialogo tra un Venditore di Fumo e una Cittadina" concepito da Maila ispirandosi al leopardiano Venditore di Almanacchi bypassa direttamente il problema immergendo lo spettatore in un mondo in cui un sistema di governo realmente democratico basato su sorteggio, turnazione, brevità e non ripetibilità degli incarichi esiste già. Così, quando si passa a esaminare la nostra proposta, l'ipotesi che si parli di una cosa possibile si è già insinuata nella testa dei presenti, e l'obiezione (sollevata più volte in occasione di precedenti incontri) che la nostra proposta sia pura utopia, sembra perdere di colpo consistenza, mentre il passaggio a un diverso sistema di governo appare praticabile.



L'abbinata spettacolo-presentazione del libro sembra riscuotere successo già sulla carta, come dimostra l'arrivo dei primi inviti a rappresentare la pièce (e presentare il libro)  in altre località. Di questo passo, rischia di diventare una tournée lunga e piena di soddisfazioni.

sabato 11 novembre 2017

Va in scena la Democrazia



Maila Nosiglia, coautrice del saggio "Democrazia davvero", è anche una valente autrice di testi teatrali, nonché attrice. Era dunque inevitabile che la nostra proposta politica finisse per calcare le assi del palcoscenico.
La pièce teatrale scritta da Maila avrà il suo battesimo nella prestigiosa cornice del Teatro Parenti, nel centro di Milano. L'occasione è l'edizione 2017 del BookCity di Milano, l'originale "fiera" libraria che si svolge nella città meneghina da cinque anni. Nei suoi tre giorni di durata (più uno per le scuole) la manifestazione si articola in incontri, presentazioni, dialoghi, letture ad alta voce, mostre, seminari e spettacoli, non confinati però dentro qualche polo fieristico ma diffusi capillarmente in moltissimi luoghi diversi della metropoli lombarda.




Per presentare il nostro saggio, l'editore Fulvio Tasca e i due autori hanno avanzato la proposta di mettere in scena il lavoro di Nosiglia, "Dialogo di un Venditore di Fumo e di una Cittadina", dove il primo è un politico in carriera e la seconda una normale cittadina che sostiene la democraticità del sorteggio rispetto alle elezioni, strumento tipicamente oligarchico.



La pièce andrà in scena domenica 19 novembre alle 10,30 nella Sala 3 del Teatro Parenti, in via Pier Lombardo 14. Alla recita farà seguito l'incontro con il pubblico con la presentazione del libro e la possibilità per gli spettatori di intervenire. Uno scambio di idee e informazioni del tutto informale e, speriamo, piacevole quanto interessante.
Per una volta, vale la pena di svegliarsi un po' prima, alla domenica.

venerdì 3 novembre 2017

A chi serve il Parlamento?


Presidenti della Repubblica e del Consiglio dei ministri, ministri, "Governatori" delle regioni, sindaci... a chi servono? Certo non a cittadini e cittadine.
Il sistema di governo repubblicano basato sulle cariche istituzionali su menzionate nato dopo le rivoluzioni americana e francese è stato costruito per garantire alla borghesia affaristica che il potere strappato a regnanti e aristocratici rimanesse per sempre nelle loro mani. Il modo migliore per riuscirci era che fosse lei stessa a scegliere "i migliori" a cui affidare il governo dei vari Paesi. L'importante era impedire in ogni modo che a prendere le decisioni fosse direttamente il popolo attraverso reali forme di democrazia.
Oggi però comincia a filtrare da più parti la convinzione che i tempi siano maturi per passare a una forma di governo davvero democratica (e non solo a parole, negate dai fatti).
Chi ha letto "Contro le elezioni" di David Van Reybrouck (Feltrinelli) sa che lo scrittore, storico e archeologo belga si è posto il problema di quale diversa architettura istituzionale potrebbe sostituire quella attuale in una vera democrazia basata sul sorteggio anziché sulle elezioni. In uno scambio di email con il politologo statunitense Terril Bouricious, i due hanno ideato un sistema istituzionale alternativo e razionale, basato sulle esperienze di partecipazione democratica praticate negli ultimi trent'anni in mezzo mondo (giurie cittadine, sondaggi deliberativi, consensus conference ecc.) che in "Democrazia davvero" abbiamo così riassunto:

Dopo aver sperimentato in prima persona i processi deliberativi, Van Reybrouck, durante la stesura del suo libro è entrato in contatto con lo statunitense Terrill Bouricius, autore di un interessante articolo sulla rivista specializzata Journal of Public Deliberation. Ricercatore, una vita politica ventennale in qualità di eletto nello Stato del Vermont alle spalle, Bouricius, affascinato dall’ipotesi di sostituire a una Camera di eletti una di sorteggiati, non si è accontentato di un “progetto ideale” per il quale il cambiamento avvenisse in modo quasi magico, ma si è posto una serie di domande molto sensate per evitare che quella buona idea potesse naufragare sugli scogli della realizzazione pratica. Domande del tipo: quante fruttivendole del Texas sarebbero disposte a chiudere bottega per due o tre anni per andare a sedere in Parlamento, se estratte a sorte? E quanti ingegneri abbandonerebbero a metà un grande progetto per fare il proprio dovere di rappresentanti in una Camera di sorteggiati? E ancora: un Parlamento del genere, benché assolutamente legittimato da un metodo di selezione al di sopra delle parti, sarebbe anche efficiente? O andrebbe a finire che chi “ha altro da fare”, se sorteggiato, si inventerebbe tutte le scuse del mondo per restarsene a casa, lasciando la nuova Camera a disoccupati, studenti e precari? Domande tutt’altro che peregrine, come si vede.
Bouricius e Van Reybrouck (con l’ulteriore collaborazione di David Schecter), insieme, con un intenso scambio di email e sulla base della reciproca esperienza nel campo delle assemblee deliberative, hanno così partorito un progetto molto articolato e basato sul buon senso. In pratica, i due ricercatori propongono intanto, come nell’antica Atene, di ricorrere all’estrazione a sorte non per una sola istituzione, ma per diverse di esse in modo da andare a costituire un sistema di freni e contrappesi nel quale un corpo sorteggiato sorvegli l’altro. Queste sono le varie componenti del complesso “sistema” (il numero dei membri delle varie istituzioni, naturalmente, è solo indicativo):

Consiglio di definizione delle priorità
Ha il compito di stabilire l’ordine delle priorità, sceglie i temi su cui legiferare. È composto da 150-400 persone, eventualmente ripartite in sotto-comitati, sorteggiate tra volontari. Lavorano a tempo pieno e durano in carica 3 anni, non rinnovabili. Ogni anno si risorteggia un terzo dei componenti. Ricevono uno stipendio mensile.

Gruppi d’interesse
Propongono temi su cui legiferare. Formati da una dozzina di persone, possono essere in numero illimitato. Sono composti da volontari che si propongono. Si riuniscono tutte le volte che lo desiderano, fino alla definizione del tema da proporre. Non ricevono alcuna remunerazione.

Gruppi d’esame
Presentano delle Proposte di Legge sulla base degli elementi forniti dai Gruppi d’interesse e dagli specialisti. Sono composti da 150 persone, divisi in gruppi distinti; ogni gruppo si occupa di un solo àmbito. I partecipanti sono sorteggiati tra volontari e non scelgono il loro gruppo, ma vi vengono destinati casualmente. Lavorano a tempo pieno e durano in carica 3 anni, non rinnovabili. Ogni anno si risorteggia un terzo dei componenti. Ricevono uno stipendio mensile e un ulteriore sostegno.

Giuria delle politiche pubbliche
Vota le leggi a scrutinio segreto dopo una presentazione-dibattito pubblico; è composta da 400 persone, tassativamente in seduta plenaria, estratte a sorte tra tutti i cittadini adulti. La partecipazione è obbligatoria. I componenti vengo chiamati ogni volta che c’è una legge da votare, per la durata di uno o più giorni (quelli necessari per giungere al voto, ma non più di una settimana). Ricevono un compenso giornaliero e un rimborso spese (viaggio, alloggio, eccetera).

Consiglio di regolamentazione
Decide le regole e le procedure dei lavori legislativi. Composto da circa 50 membri estratti a sorte tra volontari (eventualmente degli ex-partecipanti). Lavorano a tempo pieno (soprattutto all’inizio) e durano in carica 3 anni, non rinnovabili. Ogni anno si risorteggia un terzo dei componenti. Ricevono un salario mensile.

Come scrive Van Reybrouck per “giustificare” questa costruzione che smantella l’idea stessa di un sistema governativo basato su Parlamento e Camere come siamo abituati a considerarlo, se si vuol cambiare metodo è necessario conciliare gli interessi contraddittori che ci stanno dietro: “il sorteggio permette di ottenere un vasto campione rappresentativo, ma sappiamo che questo funziona meglio nei piccoli gruppi. Si vuole favorire una rotazione della partecipazione, ma sappiamo che mandati più lunghi propiziano un lavoro più serio. Vogliamo far partecipare tutti quelli che ne hanno desiderio, ma sappiamo anche che in questo modo si arriva a una sovrarappresentazione dei cittadini dotati di un alto livello di formazione e capaci di esprimersi. Si vuole che i cittadini deliberino insieme, ma conosciamo il rischio del formarsi di un pensiero collettivo: la tendenza a cercare troppo rapidamente un consenso. Si vuole accordare tutto il potere possibile a un corpo estratto a sorte, ma sappiamo che alcuni individui eserciteranno troppa influenza sul processo collettivo facendolo approdare a risultati arbitrari”.
Inutile inseguire composizioni ideali dei gruppi, modi ideali di selezione o dinamiche di gruppo ideali, sostiene Bouricius. Non esiste niente di ideale, ecco tutto. Per questo i due ricercatori hanno studiato un puzzle di istituzioni che interagiscono, collaborano, si controllano tra di esse. Un meccanismo dotato di un “carattere evolutivo”, nel quale niente è predeterminato. “Un aspetto cruciale è che tutto questo dispositivo non è che l’innesco di un progetto... evolverà come il Consiglio di regolamentazione lo giudicherà auspicabile”, scrive ancora Bouricius. Con una sola regola, possibilmente: “che le nuove regole del gioco che riguardano il Consiglio di regolamentazione, non possano entrare in vigore che una volta rimpiazzato il cento per cento dei suoi membri”.

lunedì 10 luglio 2017

L'importanza delle parole



Il sociologo e politologo Ilvo Diamanti pubblica oggi su Repubblica una aggiornata "Mappa delle parole". Lasciamo a lui le considerazioni su politici e partiti (per noi, frutti ormai marci dell'oligarchia che ci hanno abituato a considerare democrazia, e dunque da gettare quanto prima nel cassonetto dell'umido) e spendiamo invece due parole sulla democrazia. Lo studioso, naturalmente, con questa parola si riferisce all'attuale sistema di governo e non alla reale democrazia a cui noi abbiamo dedicato un saggio. Per fortuna il "sentimento" di cittadini e cittadine, pur vittime anch'essi ed esse dell'equivoco che ci trasciniamo dietro da ormai due secoli abbondanti, sembra indirizzato ad archiviare l'attuale sistema elettorale a favore di un qualcosa in cui il cittadino possa davvero contare governando in prima persona. Ce lo dicono le tabelle che pubblichiamo qui sotto (basta cliccarci sopra per ingrandirle), dove la "democrazia" rappresentativa riscuote ormai un consenso appena superiore al 50%, ma già proiettandosi nel futuro vediamo che più del 50% della popolazione adulta confida in una più partecipativa "democrazia digitale".



Se la popolazione fosse informata della reale possibilità di utilizzare strumenti diversi per governare (sorteggio, giurie di cittadini, sondaggi deliberativi, consensus conference... ne parliamo ampiamente in "Democrazia davvero"), forse la parola democrazia (ma finalmente nel suo corretto significato) diventerebbe una speranza futura per la maggioranza assoluta degli italiani.
La proposta di una nuova Costituente che cambi le carte in tavola e istituisca strumenti realmente democratici per consentire a cittadini e cittadine di governare in prima persona, in questo senso, è l'unica effettiva speranza di cambiamento che resta. Le alternative, e la tabella qui sotto ce lo mostra, sono lo scivolamento verso un populismo conservatore o il sogno dell'ennesimo Uomo della Provvidenza, politico o pontefice che sia.


Ogni giorno ulteriore perso dietro alle pratiche del passato, partiti, elezioni e politici di professione, è un passo in più verso soluzioni autoritarie. L'unica (l'unica!) via di uscita è l'approdo a una reale democrazia. Che, già da oggi, è possibile.


venerdì 2 giugno 2017

Il filosofo che ama il sorteggio



Libération ha pubblicato in questi giorni un corposo articolo sull'ultima fatica libraria di Jacques Rancière (nella foto sopra), una conversazione scritta con Eric Hazan, "En quel temps vivons-nous?" (In che tempi viviamo?). Il filosofo francese, nato ad Algeri nel 1940, professore emerito all'Università di Parigi-VIII e autore del saggio "L'odio per la democrazia" ampiamente citato nel nostro libro, si interroga sui concetti di "popolo" e "rappresentanza" e sottolinea la contraddizione tra "logica democratica e logica rappresentativa", evidenziando alcuni strumenti che permetterebbero di iniettare "maggiore democrazia nelle istituzioni": "il sorteggio e la brevità dei mandati, non cumulabili e non rinnovabili". Rancière precisa che la democrazia non è la scelta dei rappresentanti, ma il potere di coloro che che non sono qualificati per esercitare il potere; rifiuta l'immagine di una politica che vive di sondaggi spacciando la rappresentanza come un movimento che nasce dalla base, dove "il popolo è un corpo collettivo che si sceglie i propri rappresentanti"; "un popolo politico - argomenta lo studioso - non è un dato preesistente, ma un risultato. Non è il popolo che si rappresenta, ma la rappresentanza che produce un dato popolo".
Nelle intenzioni di chi inventò il sistema rappresentativo c'era l'idea implicita che una parte della società fosse "naturalmente atta, per la sua posizione, a rappresentare gli interessi generali della società"; in questo modo non soltanto si è creata "l'illusione democratica" in base alla quale "le persone subiscono un potere di cui si immaginano essere la fonte", ma si è anche fatto sì che la rappresentanza producesse un mestiere esercitato da una classe di politici che, "in sostanza, si auto-riproduce e fa convalidare la propria auto-riproduzione dalla forma specifica di popolo che essa produce, cioè il corpo elettorale".




Per meglio chiarire il pensiero del filosofo, riportiamo un brano da "Democrazia davvero":
"...lo studioso (Rancière, Ndr) decide di tornare ad abbeverarsi alla fonte del pensiero democratico, ad Atene e a “La Repubblica” e le “Leggi” di Platone. Nel III libro, l’Ateniese elenca i sette princìpi che regolano il governo di un Paese. Quattro sono rappresentati da differenze dovute alla nascita e giustificano il potere: dei genitori sui figli, degli anziani sui giovani, dei padroni sui servi, dei nobili nei confronti di chi non lo è. Altri due principi attengono alla natura: il potere dei più forti sui meno forti, e quello dei sapienti sugli ignoranti. I primi si fondano sulla filiazione, gli altri si richiamano a un principio superiore: “che non governi semplicemente chi è nato prima o chi è di più nobile famiglia, ma che governi il migliore”. Nel momento in cui il principio del governo si stacca dalla filiazione, inizia la politica. E si incontra il settimo principio: quello che richiede, per decretare chi debba comandare e chi ubbidire, di ricorrere al più giusto tra tutti, il principio di autorità “caro agli dei”, la scelta del dio Caso. Il sorteggio, “la procedura democratica con la quale un popolo di uguali decide la distribuzione dei ranghi”.
Ed è il principio che rovescia il tavolo delle regole del giusto governo, nel momento in cui afferma che il requisito fondamentale per governare è la mancanza di requisiti. Non è la ribellione armata con la quale i figli, gli schiavi o gli ignoranti si impossessano del potere, ma un semplice cambio di paradigma: "una superiorità che non è fondata su nessun altro principio che non sia quello dell'assenza di superiorità". Rancière evidenzia come, se le nostre “democrazie” considerano il sorteggio contrario a ogni serio metodo di selezione dei governanti, questo dipenda dall’aver dimenticato il significato stesso di democrazia e a quale genere di “natura” aveva il compito di opporsi il sorteggio; il suo scopo era infatti quello di servire da rimedio contro un male ben più grave del “governo degli incompetenti”, e cioè il governo con una specifica competenza: “quella degli uomini abili a prendere il potere con l’intrigo”. Il filosofo ricorda come oltretutto il sorteggio non abbia mai favorito gli incompetenti più dei competenti, e aggiunge che “il buon governo è il governo di coloro che non desiderano governare”, uomini senza prerogative che solo un felice caso ha chiamato a quella funzione.
Rancière spiega che, propriamente parlando, oggi non esiste nessun governo democratico. In tutti quelli che conosciamo, è sempre una minoranza a imporre il suo volere a una maggioranza, e smentisce che il sistema rappresentativo sia stato scelto per adattare la democrazia all'epoca moderna e alle vaste platee altrimenti ingovernabili: è solo una forma oligarchica per permettere a un'élite di occuparsi in esclusiva degli affari comuni."

Se un giornale come Libération, abitualmente impegnato a occuparsi del proprio ombelico ideologico, tutto interno al sistema partitico-elettorale, "apre" alle teorie di uno studioso come Rancière, forse è segno che le crepe nella diga cominciano davvero ad allargarsi, e si può sperare che la massa d'acqua finora da essa contenuta arrivi presto a travolgere l'attuale modo di fare politica spianando la strada a una reale democrazia.



mercoledì 17 maggio 2017

Il moscone Cacciari


Massimo Cacciari è una persona intelligente. Lo dimostra anche in questa recente intervista su Nuova Altlantide. La sua analisi sulla morte della Destra e della Sinistra ottocentesche e novecentesche è precisa quanto lapidaria, così come quella sulla deterritorializzazione del capitalismo.
Ma quando cerca di "capire dove andiamo smettendola di ragionare con gli schemi del passato", come un moscone rimasto chiuso in una stanza non riesce a fare altro che picchiare nel vetro della finestra che gli impedisce di raggiungere l'esterno. Il vetro che non vede e contro il quale continuano a infrangersi i suoi sforzi è lo stesso che blocca l'intera politica occidentale: la convinzione che quella in cui viviamo sia una democrazia e che l'unica alternativa al sistema dei partiti, dei politici di professione e delle elezioni che ne sono gli strumenti sia una qualche forma di dittatura. Tertium non datur.
Chi ha letto "Contro le elezioni" di David Van Reybrouck o il nostro "Democrazia davvero" sa che non è così: una terza opzione esiste, ed è quella di una REALE democrazia. Le proposte in campo per realizzarla esistono, gli strumenti per farla funzionare pure.
Forse un giorno lo capiranno anche i Cacciari, e il moscone troverà lo spiraglio aperto della porta che gli consentirà di lasciare la soffocante stanza nella quale siamo attualmente costretti a vivere.


Il libro è in vendita su Amazon. L'eBook sui principali store online.
   

giovedì 11 maggio 2017

Economia e politica: le due facce dell'oligarchia

"...noi diciamo che è la Democrazia: in milioni devono soffrire per fare in modo che in pochi facciano miliardi."


Il divertente (quanto amaro) video tedesco qui sopra spiega come le multinazionali evadano allegramente il fisco... rispettando le leggi. Fatte dai politici finanziati dalle multinazionali. Non si può non notare come economia e politica funzionino secondo le stesse regole all'interno dell'attuale sistema che, anche se si presenta come democratico, sappiamo essere in realtà assolutamente oligarchico. E, come i fatti (e i soldi) dimostrano, da strumenti oligarchici non possono che venire risultati oligarchici.
Solo un cambiamento di mentalità che porti a una REALE democrazia può incrinare questo sistema e consentire di passare anche sul fronte economico a un metodo DAVVERO democratico, magari come l'Isocrazia teorizzata da Bellanca e ampiamente analizzata anche sul nostro libro.





mercoledì 3 maggio 2017

Ripartono le spedizioni


Per qualche mese, una serie di "incomprensioni burocratiche" tra l'editore e Amazon ha bloccato la vendita online del nostro libro. Dopo un farraginoso e stancante scambio di email, alla fine i problemi sembrano risolti e tutti i libri di Editasca sono di nuovo disponibili sul sito. Compreso "Democrazia davvero", giunto intanto alla seconda edizione.
Se preferite leggere i libri in formato cartaceo, dunque, da oggi trovate di nuovo il nostro saggio a questo indirizzo al prezzo di 12 euro (più spese di spedizione).
Se invece leggete anche i libri digitali, trovate come sempre l'ebook a quest'altro indirizzo o su tutti gli altri siti di vendita online (IBS, Feltrinelli, Google ecc.) a meno di 6 euro... e senza spese di spedizione.


giovedì 6 aprile 2017

Una risata ci sta seppellendo



Ma come si fa a prendere ancora sul serio questa politica, ogni giorno più ridicola?

Mentre in Francia una beffarda casualità fa schierare contro l'indefessa Le Pen un quartetto che sembra uscito dalle pagine di Tintin (Macròn, Fillòn, Hamòn e Melenchòn), in Italia le prime pagine dei giornali registrano ossequiosamente la comica della scelta del segretario del Partito Democratico, con i risultati (diversi) forniti dai comitati dei tre candidati anziché dal partito.

I quattro "Dupòn" dalle pagine del classico della bande dessinée francese Tintin...



...e i quattro (più una) "candidatòn" alla presidenza in Francia.

Nelle settimane precedenti l'opposizione antirenziana aveva abbandonato il PD creando un nuovo partito, il DP. Nel partito, dove sono dunque rimasti praticamente solo i renziani, guarda caso quel 50/60% di iscritti recatosi alle urne ha votato a maggioranza... Renzi! Incredibile, no? Ora la parola passa ai gazebo, dove il partito riscuoterà la "tassa" dei due euro coi quali tenta da diversi anni di mettere riparo alla continua erosione delle quote di tesseramento in inarrestabile diminuzione.
Tutto questo viene naturalmente vissuto come un momento di "democrazia", come se scegliere da un menu prefissato di candidati autonominatisi fosse un modo per esprimere la volontà popolare. Ci dispiace per tutti i sostenitori di questa ingenua visione: la Democrazia non è scegliere da un menu deciso da altri, ma decidere il menu.

lunedì 20 febbraio 2017

Partiti e ideologie, armi dell'oligarchia


Forse la sinistra (come la destra) dovrebbe cominciare a farsi delle domande sulla natura delle ideologie otto-novecentesche e sui partiti che le esprimono. Noi, intanto, nel nostro libro abbiamo già dato le risposte.
Da "Democrazia davvero": Yves Sintomer ne “Il potere al popolo” afferma che “sin dall’origine i partiti nascondevano un lato oscuro. Con loro emersero delle strutture burocratiche centralizzate e autoritarie, degli apparati capaci di concentrare nelle loro mani il massimo del potere a scapito della base, in sostanza un qualcosa di completamente diverso rispetto alla promessa di democratizzazione che sembravano incarnare.”
Da dove veniva quel “lato oscuro” ce lo spiega Simone Adolphine Weil in “Appunti sulla soppressione dei partiti politici”. Weil analizza e disseziona con stupefacente lucidità quell’efficace (per il sistema oligarchico) strumento che è il partito politico individuandone due caratteristiche principali: il totalitarismo e la derivazione religiosa.
In merito al primo punto, ella spiega come nel pensiero politico francese del 1789 non rientrasse l’idea di partito, “se non come quella di un male da evitare”. Finché il club dei giacobini, da luogo di libera discussione, per la pressione della guerra e della ghigliottina non si trasformò in un partito totalitario. La concezione politica alla base di divisioni e lotte tra le varie fazioni durante il periodo del Terrore è secondo Weil ben rappresentata nella frase del sindacalista e rivoluzionario russo Michail Pavlovič Tomskij: “Un partito al potere e tutti gli altri in prigione”.
Così”, commenta Weil “sul continente europeo, il totalitarismo è il peccato originale dei partiti.” E prosegue elencando le tre caratteristiche essenziali dei partiti:
1) un partito politico è una macchina per fabbricare passione collettiva;
2) un partito politico è un’organizzazione costruita in modo da esercitare una pressione collettiva sul pensiero di ognuno degli esseri umani che ne fanno parte;
3) il fine primo e, in ultima analisi, l’unico fine di qualunque partito politico è la propria crescita, e questo senza alcun limite.
Per via di questa caratteristica, ogni partito è totalitario in nuce e nelle aspirazioni. Se non lo è nei fatti, questo accade solo perché quelli che lo circondano non lo sono di meno.”



Alla luce di questa difficilmente confutabile lettura, il fascismo e il nazismo non ci appaiono più come una degenerazione della politica “democratica”, ma soltanto come il risultato della capacità di Benito Mussolini e Adolf Hitler di portare i propri partiti a prevalere tomskijanamente su quelli che li circondavano. Duce e führer non erano due mostri finiti per caso nell’agone politico, ma il frutto diretto e d’eccellenza della natura dei partiti.
(...)
Arriviamo alla seconda caratteristica dei partiti politici: la derivazione religiosa.
Il meccanismo di oppressione spirituale e mentale proprio dei partiti è stato introdotto nella storia dalla chiesa cattolica, nella sua lotta contro l’eresia”, afferma la filosofa. “Un convertito che fa il suo ingresso nella chiesa (...) ha visto nel dogma il vero e il bene. Ma varcando la soglia professa allo stesso momento di non essere colpito dagli anathema sit (“sia anatema!”), ovverossia di accettare in blocco tutti gli articoli di stretta fede. Questi articoli non li ha studiati. Persino a chi fosse dotato di un alto grado di intelligenza e cultura, una vita intera non basterebbe a questo studio, dato che implica anche quello delle circostanze storiche di ogni condanna. Come aderire ad affermazioni che non si conoscono? È sufficiente sottomettersi incondizionatamente all’autorità che le ha emanate. (…) Il movente del pensiero non è più il desiderio incondizionato, indefinito, della verità, ma il desiderio della conformità a un insegnamento prestabilito.”



Weil constata come chi entri in una chiesa, in un partito o in qualsiasi altra organizzazione identitaria, adotti docilmente quella disposizione d’animo che ben presto lo porterà a esprimersi con frasi tipo: “come monarchico, come socialista, penso che…”. È il meccanismo dell’appartenenza, che non si limita ai soli partiti e ci fa sembrare del tutto naturale e ragionevole poter dire: “in quanto conservatore credo che…”, “come socialista, ritengo che…”, “come italiano, penso che…”, “come cattolico, posso dire che…”, o addirittura: “in quanto juventino, sono convinto che...”. Sentendosi membri di un gruppo del quale si condivide una verità dottrinaria, non dobbiamo più neppure fare lo sforzo di pensare. “È una posizione così confortevole!” sembra sorridere la studiosa francese. “Non c’è nulla di più confortevole del non pensare.”
Chi si avvicina a un partito probabilmente ha riscontrato negli ideali da quello propagandati valori e scelte che condivide, ma naturalmente non può conoscere l’esatta posizione del partito in merito a ogni possibile problema della vita pubblica. Dunque, entrando in quell’organizzazione, esattamente come il fedele che aderisce a una chiesa, ne accetta a priori ogni scelta futura. Condividendone generalmente gli ideali (la propaganda), si affida per il resto all’autorità del partito, sottomettendosi a essa. E nel percorso che farà come membro di quel raggruppamento avrà due sole strade: continuare ad accettare le posizioni del partito senza discutere (e magari senza neanche esaminarle), oppure contestarle quando le ritenesse sbagliate. In questo secondo caso cosa può succedere? Che all’interno dell’organizzazione si creino diverse scuole di pensiero, quelle che nel linguaggio della politica vengono chiamate “correnti”. Per un tempo più o meno lungo esse possono convivere, ma prima o poi finiranno per scontrarsi, di solito in occasione di un congresso che vedrà uscire una mozione vincente e una o più mozioni perdenti. I sostenitori di queste ultime possono abbozzare e attendere una possibile rivincita in occasione di un successivo congresso o, esattamente come accade in ambito religioso, scegliere di uscire dal partito creandone un altro che abbia per ideale e programma quello contenuto nella mozione sconfitta. Si tratta né più né meno di uno scisma, o scissione, come visto più volte nella storia del Cristianesimo: l’organizzazione religiosa che ritiene di essere la chiesa autentica allontana, non ritenendoli più in linea con la dottrina ufficiale, alcuni dei suoi membri o viene da essi abbandonata per formare una nuova chiesa basata su una diversa interpretazione delle Scritture. Il fenomeno si è ripetuto più volte nel corso della storia. A causa di eresie e scismi le congregazioni religiose si dividono in diverse confessioni, ognuna delle quali reclama per sé lo status di vera e unica Chiesa. Non diversamente fanno i partiti, ognuno dei quali viene motivatamente ritenuto da Weil “una piccola chiesa profana armata della minaccia della scomunica.” (...)



Sulla natura religiosa delle ideologie politiche ironizza, da par suo, Bertrand Russell. Secondo il filosofo “lo schema ebraico della storia passata e futura è tale da costituire un potente appello agli oppressi e agli infelici di ogni tempo. Sant’Agostino adattò questo modello al Cristianesimo; Marx al Socialismo. Per capire Marx dal punto di vista psicologico si può usare il seguente dizionario:
Jahveh = Il materialismo dialettico.
Il Messia = Marx.
Gli eletti = Il proletariato.
La Chiesa = Il Partito Comunista.
La Seconda Venuta = La Rivoluzione.
L’Inferno = La punizione dei capitalisti.
Il Millennio = La Società comunista.
I termini a sinistra del segno d’uguaglianza danno il contenuto emotivo, familiare a coloro che hanno avuto un’educazione cristiana o ebraica, che rende credibile l’escatologia di Marx. Un dizionario analogo poteva esser fatto per i nazi, ma le loro concezioni sono più schiettamente da Vecchio Testamento e meno cristiane di quelle di Marx, e il loro Messia somiglia più ai Maccabei che a Cristo.”

È ancora Weil a riflettere su come tra l’attaccamento a un partito e l’attaccamento a una chiesa o all’attitudine antireligiosa non vi sia grande differenza. “Si è pro o contro la fede in Dio, pro o contro il cristianesimo, e così via. Quasi dappertutto (...) l’operazione di prendere partito, di prendere posizione pro o contro, si è sostituita all’operazione del pensiero. Si tratta di una lebbra che (...) si è espansa, attraverso tutto il paese, alla quasi totalità del pensiero.” E aggiunge che per rimediare a questa lebbra, che ci sta uccidendo, occorre provvedere alla “soppressione dei partiti politici. (…) Si ammette che lo spirito di partito acceca, rende sordi alla giustizia, spinge anche le persone oneste all’accanimento più crudele contro gli innocenti. Lo si ammette, ma non si pensa a sopprimere gli organismi che fabbricano un tale spirito.”
La filosofa francese osserva come, in conseguenza dell’esistenza dei partiti, in qualsiasi paese diventi impossibile occuparsi degli affari pubblici senza aderire a un partito e accettarne il gioco. A chiunque sia interessato al bene pubblico non restano che due opzioni: rinunciare in partenza o passare “dal laminatoio dei partiti. (…) In questo caso sarà preso da preoccupazioni che escludono quella per il bene pubblico. (…) Ne risulta che - eccezion fatta per un piccolo numero di coincidenze fortuite - vengono decise e intraprese soltanto misure contrarie al bene pubblico, alla giustizia e alla verità.

Dopo aver constatato quanto l’influenza dei partiti abbia contaminato l’intera vita mentale della nostra epoca, Weil conclude che “è evidente, dopo un attento esame, che qualunque soluzione implicherebbe innanzitutto la soppressione dei partiti politici. (…) Il fatto che esistano non è in alcun modo un motivo per conservarli”, visto che costituiscono “un male senza mezze misure. Sono nocivi nel principio, e dal punto di vista pratico lo sono i loro effetti. La soppressione dei partiti costituirebbe un bene quasi allo stato puro. È perfettamente legittima nel principio e non pare poter produrre, a livello pratico, che effetti positivi.Per consentire a cittadini e cittadine, una volta eliminati i partiti, di poter gestire finalmente in prima persona la cosa pubblica “è necessario un meccanismo adatto”, chiosa la studiosa francese. “Se la democrazia costituisce tale meccanismo, è buona. Altrimenti no.”


A che serve un presidente?

Con la grancassa di giornali e tivù (e inevitabili riverberi sui social) sta andando in onda l'elezione del presidente della repubblica....