sabato 26 novembre 2016

Castro e la democrazia



Se n'è andato oggi, all'età di 90 anni, Fidel Alejandro Castro Ruz.
Ci asterremo da qualsiasi giudizio sulla sua persona. Riportiamo invece alcune pagine dal nostro libro che, nella seconda parte "La democrazia che fu", ripercorre la Storia alla ricerca di esempi di compiuta o mancata democrazia, partendo dall'Antica Grecia dove nacque questo metodo di governo e passando attraverso Antica Roma, Comuni italiani, Corona d'Aragona, rivoluzioni americana e francese ed esperienze socialiste e comuniste. Nel capitolo dedicato a Cuba si legge:
    Sul fronte del metodo di governo, per la Costituzione, varata nel 1976 e revisionata nel ’92, Cuba è uno stato socialista nel quale tutti i poteri appartengono alla classe lavoratrice e che prevede l’esistenza di un unico partito legale, il Partido Comunista de Cuba.
Al vertice delle istituzioni statali c’è l’Assemblea Nazionale (Asemblea Nacional del Poder Popular) composta da 601 membri eletti con mandato quinquennale direttamente da tutti i cittadini che abbiano compiuto 16 anni. Il suffragio universale, diretto, libero e segreto, è stato istituito con la “Ley 72” del 1992. Secondo questa legge, peraltro, i candidati non vengono proposti dal partito, ma la selezione avviene per metà nelle assemblee generali di quartiere e per l’altra metà nei vari comitati di lavoratori, donne e studenti. Risultano eletti soltanto i candidati capaci di raccogliere l’approvazione di almeno il 50% dei votanti. Va aggiunto che nel sistema cubano i deputati nazionali non sono professionisti e pertanto svolgono le loro funzioni a titolo completamente gratuito. Sulla scheda elettorale è presente una casella dedicata all’espressione del cosiddetto voto unido. Apponendo un segno su questa, si vota automaticamente per tutti i candidati in lista. Se per il governo Cubano questa opzione serve a rafforzare l’unità del Paese e la sua immagine internazionale, visto che la scelta degli elettori è comunque del tutto libera e garantita dalla segretezza del voto, per gli oppositori falsa la competizione elettorale in virtù del fatto che quella a favore del voto unido è l’unica propaganda elettorale ammessa e sostenuta da una massiccia sovraesposizione mediatica. Chiunque abbia ragione, i risultati sono decisamente plebiscitari: alle elezioni dell’11 gennaio 1998 si recarono alle urne 7.931.229 cubani per eleggere 601 Deputati al Parlamento e 1.192 Delegati alle 14 Assemblee Provinciali. Anche se il voto non è obbligatorio, depose la scheda nell’urna il 98,35% degli aventi diritto al voto. Il 94,39% dei votanti optò per il “voto unito”.


L’Assemblea così formata elegge fra i suoi membri un Consiglio di Stato, il cui presidente è anche capo del governo e dello Stato; a lui compete il potere legislativo e l’incarico di proporre all’Assemblea i nominativi per il Consiglio dei Ministri da lui presieduto; il Consiglio dei Ministri è l’unico organo esecutivo e amministrativo del Paese. Presidente e vice presidente restano in carica 5 anni e sono ricandidabili senza limiti. Dal 1959, anno della rivoluzione, fino al 2006 il paese è stato guidato ininterrottamente da Fidel Castro Ruz che ha rivestito anche le cariche di comandante delle forze armate e di segretario generale del Partito comunista configurando così, in modo “democratico”, una dittatura personalista di fatto.
Come negli altri paesi a regime comunista, anche a Cuba i tentativi di “democratizzazione” sono consistiti solo nella concessione di meccanismi elettorali, come se “democrazia” ed “elezioni” fossero sinonimi. E, in ogni caso, anche laddove esistono spazi di libertà d’azione per i singoli rappresentanti, associazioni o semplici cittadini, l’articolo 62 della Costituzione provvede a limitarli affermando che questi non possono essere esercitati in contrasto con lo Stato socialista e con la volontà popolare di edificare il comunismo. Insomma, anche se talvolta viene permesso di dipingere liberamente, sono il Partito e il Lider maximo a stabilire le misure della tela e la tipologia della cornice. Come, a ideologie rovesciate, succede tutto sommato nei paesi capitalisti o teocratici.

giovedì 10 novembre 2016

Di Trump e altri oligarchi



Non ci stupiscono i commenti sull'elezione di Donald Trump che in questi giorni si leggono nei giornali e sui social. Quando si è abituati a vivere la politica come se si trattasse di un campionato di calcio, tifando per la propria "squadra del cuore", e si crede che quello della scelta dei rappresentanti tramite elezioni sia un sistema democratico, la lettura della realtà non può che essere superficiale e fuorviata. Per chi invece ha approfondito l'argomento, in particolare sui testi di Bernard Manin, Yves Sintomer e David Van Reybrouck, il successo del miliardario statunitense rientra esattamente nella "normalità" dei regimi oligarchici dell'Occidente.
Citiamo dal nostro "Democrazia davvero": 
Il politologo marsigliese Manin considera il governo rappresentativo elettivo un “regime misto”, insieme aristocratico (poiché attribuisce il potere a un’élite) e democratico, giacché questo gruppo di “migliori” è scelto per mezzo di un’elezione a suffragio universale. Lo stesso Manin elenca tre diversi modi nei quali questo sistema di governo si è presentato nel tempo: con il suffragio censuario basato sul predominio dei notabili e sulla centralità del Parlamento nella vita politica; con i partiti di massa che pretendevano di rappresentare gli strati popolari, ma accentravano il potere in ristrette oligarchie di apparati burocratici, e infine nella forma attuale caratterizzata dal ruolo centrale dei media nella vita politica, con il marketing e la messinscena televisiva che pesano ormai più di qualsiasi altro elemento. Manin chiama “democrazia del pubblico” o “democrazia d’opinione” quest’ultima modalità, che vede prevalere su ogni altro modello precedente l’influenza di consiglieri in comunicazione, istituti di sondaggio, carisma personale e capacità di “bucare lo schermo”, visto che la politica si fa ormai nei “salotti” televisivi, gli unici capaci di raggiungere e condizionare milioni di spettatori. In un periodo di crescente sfiducia nei partiti, non è raro che con questa nuova modalità a prevalere sia il candidato “dissidente” rispetto a quello vissuto come espressione diretta della burocrazia partitica.

Su la Repubblica, in “Primarie PD, l’anima smarrita”, gli fa eco il 9 marzo del 2016 il direttore Ezio Mauro: “i cittadini non chiedono soluzioni ma emozioni, performance e non programmi, sintonie istintive più che progetti, la notorietà al posto della fama, la celebrità prima ancora della stima. Purché si spari sul quartier generale e si alzi ogni giorno il tono apocalittico della denuncia generica e della condanna indifferenziata.”


Questo per quanto attiene ai motivi alla base della vittoria di un personaggio come Trump. Per quanto riguarda le particolari caratteristiche del sistema elettorale USA, citiamo (sempre da "Democrazia davvero") l'analisi di Alexis de Tocqueville che, anche se elaborata quasi due secoli fa 
sembra scritta oggi: “All’avvicinarsi dell’elezione, il capo del potere esecutivo pensa soltanto alla lotta che si prepara; egli non ha più avvenire; non può intraprendere più nulla, e continua solo debolmente ciò che dovrà forse esser continuato da un altro.” Lo studioso francese riporta un discorso del 21 gennaio 1809, sei settimane prima delle elezioni, del presidente Jefferson: “Io sono tanto vicino al momento del mio ritiro che prendo parte agli affari solo per esprimere la mia opinione. Mi sembra giusto lasciare al mio successore l’iniziativa delle misure di cui dovrà in seguito curare l’esecuzione e sopportare la responsabilità.”
La nazione”, prosegue Tocqueville,” dal canto suo rivolge gli occhi a un solo punto, e non si occupa che di sorvegliare le vicende della lotta che si va preparando. (…) Molto tempo prima del momento fissato, l’elezione diviene il più grande e per così dire l’unico affare che preoccupa gli spiriti. Le fazioni raddoppiano d’ardore; tutte le passioni fittizie che possono nascere dall’immaginazione, in un paese felice e tranquillo, si agitano in quel momento pubblicamente. Da parte sua, il presidente in carica è assorbito dalla cura di difendersi; egli non governa più nell’interesse dello stato, ma in quello della sua rielezione, si inchina davanti alla maggioranza e spesso, invece di resistere alle passioni di questa, come sarebbe suo dovere, ne asseconda i capricci. Via via che l’epoca della elezione si avvicina, gli intrighi divengono più attivi, l’agitazione più viva e diffusa. I cittadini si dividono in vari campi, ciascuno dei quali prende il nome di un candidato. La nazione intera cade in uno stato febbrile, l’elezione è allora il tema principale della stampa, il soggetto delle conversazioni private, lo scopo di tutti i maneggi, l’oggetto di tutti i pensieri, l’unico interesse del momento. È vero che, appena la sorte si è pronunciata, l’ardore si dissolve, tutto si calma e il fiume, straripato per un momento, rientra tranquillamente nel suo letto. Ma non dovremo noi preoccuparci che l’uragano sia potuto nascere? L’intrigo e la corruzione sono vizi naturali dei governi elettivi; ma quando il capo dello stato può essere rieletto, questi vizi si estendono indefinitamente e compromettono l’esistenza stessa del paese. Se un semplice candidato vuol riuscire con l’intrigo, le sue manovre non si possono esercitare che in uno spazio circoscritto; se al contrario, lo stesso capo dello stato scende in lizza, egli può servirsi per il suo scopo della forza del governo. Nel primo caso, è un uomo con i suoi deboli mezzi; nel secondo, è lo Stato stesso, con le sue immense risorse che intriga e corrompe. Il semplice cittadino che adopera mezzi colpevoli per giungere al potere, può nuocere alla prosperità pubblica solo in modo indiretto; ma se il rappresentante del potere esecutivo scende in lizza, le cure del governo divengono per lui l’interesse secondario; l’interesse principale è la sua elezione. I trattati e le leggi non sono più per lui che combinazioni elettorali; i posti divengono la ricompensa dei servizi resi, non alla nazione, ma al suo capo. Allora, benché l’azione del governo non sia sempre contraria all’interesse del paese, tuttavia non è più al suo esclusivo servizio, mentre solo per questo uso essa è stata creata. È impossibile considerare il cammino ordinario degli affari negli Stati Uniti senza accorgersi che il desiderio della rielezione domina i pensieri del presidente, che tutta la sua azione politica è rivolta a questo scopo, che i suoi più piccoli atti sono subordinati a questo oggetto, che, via via che il momento della crisi si avvicina, l’interesse individuale si sostituisce all’interesse generale. Il principio della rielezione rende dunque più estesa e pericolosa l’influenza corruttrice dei governi elettivi, poiché tende a degradare la morale pubblica e a sostituire al patriottismo l’abilità.”

Il “comportamento sotto elezioni” dei politici non è l’unico problema. Anche le regole elettorali, sostanzialmente invariate dall’inizio del 1800, presentano qualche criticità. Il sistema elettorale degli Stati Uniti è piuttosto complesso. Dovendo conciliare i diritti e l’autonomia dei singoli stati con la necessità di una forma comune, all’indomani della nascita della nuova Repubblica si decise di creare per ogni stato un collegio elettorale formato dai “grandi elettori” cui affidare il compito di eleggere il presidente. Si stabilì che ogni stato avesse diritto a due grandi elettori più il numero di deputati presenti alla Camera dei Rappresentanti; dato che i deputati vengono attribuiti in proporzione alla popolazione, il numero dei grandi elettori ne è il riflesso. Così, alla California che ha 35 milioni di abitanti, ne spettano 55, mentre al Wyoming soltanto 3. A parte un paio di stati che hanno un sistema di voto proporzionale, in genere i voti vengono assegnati secondo il criterio detto “winner takes all (il vincitore prende tutto): anche se i cittadini esprimono la propria preferenza per uno specifico candidato, non viene eletta la singola persona ma tutto il gruppo di grandi elettori associato a quella; il candidato che ha almeno un voto in più degli avversari prende tutti i grandi elettori di quello Stato. La conseguenza è che un presidente può essere eletto anche senza avere la maggioranza dei voti popolari, come è accaduto già quattro volte nella storia americana.
Ma non basta: a differenza della maggior parte degli altri paesi con sistema elettivo, negli Stati Uniti per votare occorre iscriversi alle liste elettorali, e la procedura non è gratuita.
A tal proposito, Luciano Canfora (in "Critica della retorica democratica") scrive: “I resoconti, nei giornali europei, delle presidenziali americane non danno mai, o quasi nascondono, i risultati conseguiti dai contendenti in termini di voti; viene data solo la percentuale. Si vuole nascondere che la maggioranza degli aventi diritto al voto, negli USA, non esercita tale diritto.” Il fatto è che “il certificato elettorale non viene fatto giungere ai singoli cittadini, come accade in Europa; sono i cittadini che debbono andarlo a richiedere, farsi parte sollecita. E una larghissima parte non lo fa: per molte ragioni, tra le quali spicca ovviamente l’assenteismo politico delle comunità povere e marginali. Peraltro, tra coloro che il certificato lo ritirano, moltissimi ugualmente non votano.” Il risultato è che, alla fine, “il vincitore rappresenta una modesta minoranza del corpo civico.”
Canfora conclude che “è improprio definire democrazia un sistema politico nel quale il voto è merce sul mercato politico, e l’ingresso nel Parlamento comporta una fortissima spesa elettorale da parte dell’aspirante rappresentante del popolo. Questo rattristante (sul piano etico prima ancora che democratico) aspetto, fondante, del sistema parlamentare resta per lo più in ombra. Il ceto politico esprime tendenzialmente le classi medio alte e abbienti.”
Ancora più radicale è il giudizio del filosofo anarchico e teorico della comunicazione Avram Noam Chomsky, per il quale l’attuale sistema di governo non è neppure un’oligarchia, dato che in un mondo che vede 85 persone possedere la stessa ricchezza di altri 3 miliardi e mezzo di individui, ciò che succede alla gente normale ha valore zero. “Il settanta per cento della popolazione”, sostiene lo studioso, “non ha nessun modo di incidere sulle politiche adottate dalle amministrazioni. Questa è plutocrazia”. Un governo (mondiale) dei ricchi. Difficile dargli torto. E impossibile stupirsi della vittoria di un miliardario.


Quello che è certo è che, in realtà, chiunque vincesse tra i due principali contendenti, a perdere sarebbero stati i cittadini e le cittadine. Ancora da "Democrazia davvero":
Lo storico e politico Benjamin Constant, che pure considera l’istituto della rappresentanza e lo strumento delle elezioni come un inevitabile portato della modernità, riconosce candidamente che in questo modo: “la sovranità è rappresentata, e questo significa che l’individuo è sovrano solo in apparenza; e se a scadenze fisse, ma rare, (...) esercita questa sovranità, è solo per abdicarvi”.
Gli facevano eco Tocqueville (“In un sistema del genere i cittadini escono per un momento dalla dipendenza, per designare i loro padroni, e poi vi rientrano.”) e Jean-Jacques Rousseau (“Il popolo inglese pensa di essere libero, ma si sbaglia ampiamente, non lo è che durante l’elezione dei membri del Parlamento; appena sono eletti, lui torna schiavo, non è niente.”).
Tornando alla reale natura dei sistemi sedicenti democratici, il filosofo, sociologo e storico francese Raymond Aron in “Del carattere oligarchico dei regimi costituzionali-pluralistici” sostiene che “non è possibile concepire un regime che, in un certo senso, non sia oligarchico. (…) L’essenza stessa della politica è che le decisioni vengono prese non dalla collettività, ma per la collettività”. E aggiunge: “I nuovi regimi che si denominano popolari non sono che oligarchie, con un piccolo gruppo di privilegiati che sfruttano le masse. Questa nuova classe, però, è sterile, non rende alla società servizi proporzionali ai privilegi di cui gode”.


Come conseguenza di analisi più o meno approfondite o solo sulla base della sperimentata impotenza a contare effettivamente nelle scelte politiche, sono sempre di più le persone che non accettano di partecipare al "gioco truccato" delle elezioni. Negli Stati Uniti come da noi. Se invece delle fuorvianti percentuali si guarda infatti il numero reale dei votanti, il dato della crescente disaffezione è di tutta evidenza: nelle competizioni americane si è passati da circa 131 milioni e 400 mila voti complessivi nel 2008, ai circa 122 del 2012, agli attuali che secondo le prime stime si aggirano intorno ai 118. Circa 13 milioni e mezzo di astenuti in più. Su un totale di 214 milioni di aventi diritto al voto (altri dati li trovate qui).

Dare finalmente il potere ai cittadini mettendo fine all'attuale sistema oligarchico a favore di una reale democrazia diventa ogni giorno più urgente.


giovedì 5 maggio 2016

Giriamo pagina!





Due anni di riflessioni, studio e scrittura per cercare di comprendere i motivi della crisi politica che stiamo vivendo e immaginarne una via d'uscita. Il risultato è questo libro, per il momento disponibile solo in versione eBook. Ve lo potete procurare alla modica cifra di 5 euro e 99 sul sito di Ultima Books e in tutte le principali librerie onlineAmazonIBSFeltrinelliGoogle Play Store eccetera. Per la versione cartacea ci sarà da attendere un po'. Appena sarà pronta vi informeremo qui e sulla nostra pagina Facebook.
Qui sotto pubblichiamo la presentazione del libro dalla quarta di copertina, quella interna, l'indice delle varie parti del saggio e i profili degli autori. Buona lettura.


La quarta di copertina
All’indomani delle rivoluzioni americana e francese la borghesia delle nascenti repubbliche, per tenere lontana qualsiasi forma di democrazia (ritenuta pericolosa quanto inefficace) e impedire così che il potere appena strappato dalle mani di re e aristocratici finisse nelle mani del popolo, scelsero come sistema di governo quello rappresentativo basato sulle elezioni. Un sistema che produce oligarchie, ma al quale fu quasi subito appiccicato il termine di “democrazia”, cioè proprio quello del genere di governo che si era voluto evitare. Da questo equivoco nasce buona parte dei guasti della politica coi quali ci confrontiamo ai nostri giorni: partiti-chiese impegnati in una interminabile guerra per bande per la conquista del potere, politici professionisti interessati solo alla propria carriera, corruzione diffusa, impotenza dei parlamenti e scelte di governo calate dall’alto dal mondo dell’imprenditoria e della finanza si tengono inestricabilmente in un sistema marcio e malato che ha smesso da tempo di dare i pochi, buoni frutti che solo casualmente è stato capace di produrre. è dunque ora di passare ad altre modalità per scegliere i nostri/le nostre rappresentanti. Non c’è bisogno di inventare niente. La storia ci soccorre con le parole di Aristotele relative al sistema in uso nell’Antica Grecia, cioè il sorteggio: “eleggere è un modo di procedere oligarchico, mentre è democratico tirare a sorte.” Ma è possibile applicare alla complessa società moderna questo strumento utilizzato in passato nel ristretto della Città Stato di Atene, in alcuni Comuni italiani, o nelle città spagnole della Corona D’Aragona? Sulla base delle esperienze di James Fishkin, di Terril Bouricious e degli studi di Yves Sintomer e David Van Reybrouck, gli autori di questo esaustivo saggio sostengono di sì. E spiegano come.


La presentazione interna
Ci abbiamo provato.
In anni giovanili e nella piena maturità.
Ci siamo “sporcati le mani” militando in partiti, movimenti e associazioni; partecipando a congressi, assemblee e convegni; organizzando eventi e cortei; andando in piazza, sui giornali, in tivù e su internet.
Alla fine abbiamo capito che era assolutamente inutile.
Finché la politica sarà ostaggio dei partiti all’interno di un sistema falsamente democratico come quello elettivo, il cittadino non conterà niente. Lo aveva ben chiaro lo scrittore Samuel Langhorne Clemens, più noto come Mark Twain, quando scriveva: “Se votare facesse qualche differenza, non ce lo lascerebbero fare”. Era lampante anche per Simone Adolphine Weil che già più di sessant’anni fa dichiarava recisamente: “Non abbiamo mai conosciuto nulla che assomigli, neppure da lontano, a una democrazia. Nella cosa a cui attribuiamo questo nome, in nessun caso il popolo ha l’occasione o i mezzi per esprimere un parere su alcun problema della vita pubblica.”
Fino a quando la politica sarà soltanto un modo di far carriera, le scelte si continueranno a fare sopra la testa dei cittadini e nell’esclusivo interesse di professionisti che pensano solo a sé stessi. Ce lo ha insegnato la storia che il professionismo non ha mai giovato alla gestione della cosa pubblica. Tutti ricordiamo le celebri invettive di Petrarca e Machiavelli contro le milizie mercenarie. Altro tema, si dirà, ma il nocciolo è lo stesso: i professionisti conoscono la tecnica, ma non ci mettono il cuore; i professionisti pensano soprattutto al denaro, e i loro interessi non sono quelli della comunità che li stipendia. Ma basta il cuore, per prendere le decisioni migliori per il governo di un paese? John Dewey, in “Comunità e potere”, sembra rispondere positivamente a questo dubbio: “Chi calza la scarpa sa meglio del calzolaio esperto se questa gli fa male e in che punto gli fa male, anche se quest’ultimo è il miglior giudice di quello che si deve fare per rimediare”. E aggiunge: “La distanza che divide una classe d’esperti dagli interessi comuni è inevitabilmente così notevole che questa diventa una classe avente interessi privati e una conoscenza privata, che nelle questioni sociali non è affatto conoscenza.”
Resta da domandarsi se esista, un modo di fare politica diverso dall’attuale guerra per bande; un sistema che metta, per la prima volta nella storia, il governo della cosa pubblica davvero nelle mani dei cittadini, di ogni cittadino e cittadina, realizzando finalmente una reale democrazia.
Noi crediamo di averlo trovato.


L'Indice

Presentazione

Introduzione

Prima parte
Lo stato delle cose
1. Come si sta
2. Come ci siamo arrivati
3. Ma quanto mi costi!

Seconda parte
La democrazia che fu
1. Antica Grecia
2. Antica Roma
3. Firenze, Venezia, Corona d’Aragona
4. Impero e monarchie
5. Rivoluzioni americana e francese
6. Socialismo e Comunismo
a) La Comune di Parigi
b) L’Unione Sovietica
c) La Cina
d) Cuba

Terza parte
Il grande inganno
1. Vade retro, democrazia
2. Come l’oligarchia cominciò a chiamarsi democrazia
3. Partiti e Religione

Quarta parte
Il ritorno del sorteggio

Quinta parte
Come è cambiato il mondo, come siamo cambiati noi
1. Ambiente, limiti dello Sviluppo, Decrescita
2. Un popolo di consumatori

Sesta parte
Quale democrazia
1. Democrazia, aristocrazia, oligarchia
2. Le proposte in campo
a) Strumenti di Democrazia Diretta
b) Democrazia a sorte
Proposta Flores D'Arcais
Proposta professori catanesi
Proposta Testa/Calenda-Ainis
Proposta Callenbach-Phillips
Proposta Sintomer
Proposta Buchstein
Proposta “Democrazia continua”
Proposta “Isocrazia”
Proposta Rancière
Proposta Van Reybrouck-Bouricius
Proposta “Democrazia Davvero”

Conclusione

Ringraziamenti

Gli autori

Letture consigliate


Gli autori

Marcello Toninelli è nato a Siena il 25 giugno 1950. Scrittore, autore di fumetti e giornalista, ha esordito professionalmente all’età di 19 anni pubblicando sulla rivista Off Side “Dante”, parodia a strisce umoristiche della Divina Commedia. Dopo tre anni da bancario si è dedicato esclusivamente alla scrittura e al disegno collaborando con le principali case editrici italiane, da Fabbri a Mondadori, a Universo, a Bonelli. Nel 1985, insieme ad alcuni colleghi, ha fondato il trimestrale di fumetti Fox Trot, poi trasformato in Fumo di China, prima rivista di informazione e critica su fumetti e animazione. Dal 1990 collabora con la San Paolo Periodici pubblicando con successo parodie a fumetti dei classici della letteratura e alcune serie di vario genere sul settimanale per ragazzi il Giornalino, e vignette su Famiglia Cristiana. Sempre con la tecnica delle strisce umoristiche ha realizzato la biografia di Mussolini, apparsa su Storia Illustrata, e quella di Berlusconi, pubblicata da Cartoon Club Editore. Per Gazzenda, agenda della Gazzetta dello Sport, ha creato i personaggi del transessuale Tinì Trantran e del ciclista playboy Rocco Cipolla, e su Fumo di China sta pubblicando “Renzo & Lucia, i Promessi Sposi a fumetti”. I suoi lavori sono stati pubblicati in Spagna da Norma Editoriale, in Norvegia da Transfe:r Forlag, in Canada dalla rivista trilingue Panoramitalia, e in Turchia dall’editore 1001 Roman.
Gli sono state dedicate mostre personali in occasione delle principali Convention del settore e ha ricevuto numerosi premi per la sua attività.
È stato chiamato a parlare del suo “Dante” in due università canadesi, in varie sedi norvegesi dell’Associazione Dante Alighieri, oltre che in varie località italiane in occasione del Settecentocinquantennale della nascita del Sommo Poeta.
Ha pubblicato i romanzi “S’i’ fosse Morte...”, “Il pianeta scomparso” e “Darkiller”.
Ha collaborato con articoli e vignette ai quotidiani Gazzetta dello Sport e Corriere di Livorno, e al giornale online QuiLivorno.
È stato iscritto al Partito Radicale negli anni Settanta e, recentemente, è stato attivista del nodo territoriale livornese dell’Alleanza per il Lavoro, i Beni comuni e l’Ambiente. Nel 2013 ha fondato con Maila Nosiglia e altri l’associazione politica Cinque e Cinque.


Maila Nosiglia è nata a Livorno il 12 luglio del 1953. Laureata in Lettere con lode all’Università di Pisa, ha insegnato per 35 anni nella scuola superiore statale.
Diplomata nel 1970 alla scuola di dizione e recitazione del Centro Artistico labronico Il Grattacielo, ha recitato per diversi anni nell’omonima compagnia stabile. Con altri, ha fondato successivamente la Compagnia Spazioteatro esibendosi al Teatro La Goldonetta e debuttando, nel 1978, nella regia. Nei due anni successivi è entrata alla Bottega del Teatro di Firenze fondata e diretta da Vittorio Gassman recitando con lui al La Pergola, prestigioso teatro del capoluogo. Nel 1981 ha firmato la regia di un testo di Giorgio Fontanelli, “A Livorno, quel gennaio del ‘21”, andata in scena al teatro Goldoni della sua città. Nel 1999 ha fondato l’Associazione culturale Ensemble e, tra il 2005 e il 2006 è stata autrice e conduttrice de “Il dito nell’occhio”, programma di critica di costume in onda sull’emittente locale Radio Fragola. Ha scritto opere teatrali, condotto trasmissioni radiofoniche, vinto competizioni canore, tenuto corsi di dizione e recitazione e prestato la sua voce in numerosi readings.
Dall’ottobre 2013 al dicembre 2015 è stata Coordinatrice responsabile della Università 50 & Più di Livorno, fondandone la Compagnia teatrale e mettendo in scena una riduzione di “Processo a Gesù” di Diego Fabbri.
Nel 2015 è stata tra i fondatori dell’Associazione Liberi Scrittori (A.L.A.) e nel gennaio 2016 ha dato vita alla compagnia Libereparole con la quale ha portato sul palco con la messinscena di Fabio Vannozzi i due atti de “La buona scuola”, di cui è autrice.
È stata segretaria di sezione di Rifondazione Comunista e, successivamente, ha partecipato all’attività dell’Italia dei Valori di Livorno. Nel 2013 ha fondato con Marcello Toninelli e altri l’associazione politica Cinque e Cinque.


A che serve un presidente?

Con la grancassa di giornali e tivù (e inevitabili riverberi sui social) sta andando in onda l'elezione del presidente della repubblica....