giovedì 15 ottobre 2020

Cambiamo sistema


Una ricerca della Ipsos apparsa oggi sul Corriere della Sera evidenzia come in Italia ci sia "una marcata disaffezione verso la democrazia". Ovviamente parlano dell'attuale forma politica che ci hanno insegnato a chiamare così, anche se nei fatti si tratta di un sistema sostanzialmente oligarchico che mette tutto il potere in mano a un'aristocrazia elettorale che si autoriproduce.
Secondo il sondaggio, stante una situazione politica sempre più frustrante e inconcludente, la maggioranza di cittadini e cittadine è "pronta a sperimentare qualcosa di diverso". E, per fortuna, contrariamente a quanto dicono abitualmente i titoli allarmistici dei principali quotidiani, Corrierone compreso, non si tratta dell'Uomo Forte.
Secondo il quotidiano, di fronte alla "lentezza delle decisioni e al costo delle istituzioni rappresentative" che suscitano ampio malcontento, "godono invece di vasto consenso due tipi di aggiustamenti: a) una redistribuzione dei poteri verso Regioni e Comuni; b) la suggestione della democrazia diretta."
Se possiamo dire la nostra, la redistribuzione dei poteri dal centro verso la periferia è apparentemente un elemento di maggiore democraticità... ma se il sistema di scelta dei rappresentanti resta quello in vigore, sarà solo l'oligarchia a essere decentrata. Le recenti scelte (per non parlare più semplicemente di confusione) delle varie Regioni in tema sanitario hanno dimostrato che se le istituzioni continuano a funzionare nel solito modo, anche i risultati saranno i soliti: incompetenza e inadeguatezza, accompagnate spesso da corruzione.
E anche la "democrazia diretta" è in effetti poco più d'una suggestione: non riusciamo proprio a immaginare come si potrebbero prendere decisioni importanti sulla base di un disinformato "voto da casa".
Se escludiamo dunque il ricorso all'Uomo Forte che, certo, comporterebbe vantaggi quanto a efficienza nelle decisioni ma elimenerebbe ogni elemento di partecipazione popolare, secondo il nostro punto di vista resta solo una strada percorribile per "sperimentare qualcosa di diverso", e cioè quella di una reale democrazia basata sull'architettura istituzionale proposta da David Van Reybrouck e Terrill Buricious di cui abbiamo parlato più volte.


Purtroppo, il progetto dei due studiosi che abbiamo fatto nostro non troverà mai spazio sulla grande stampa e nell'informazione televisiva perché l'eliminazione che proponiamo dell'intera categoria dei politici di professione lascerebbe i giornalisti orfani delle abituali cronache politiche partigiane e dei talk show che attirano tanti lettori e telespettatori. Ancor meno accoglienza riceveremo dall'attuale politica, visto che chiediamo tout court il suicidio dell'intera categoria.

Ci resta perciò, inevitabilmente, solo un lento, paziente lavoro di controinformazione e passaparola. Un compito lungo e pieno di ostacoli, al quale comunque non rinunceremo perché è l'unica effettiva speranza davanti all'insipienza interessata della politica oligarchica.







domenica 4 ottobre 2020

E' la stampa, bellezza!


E' di questi giorni la notizia della cessione in corso di diverse testate locali da parte del gruppo Gedi diventato recentemente di proprietà della famiglia Agnelli. L'acquirente dovrebbe essere una cordata di imprenditori di varia natura che hanno costituito nel luglio scorso il gruppo SAE (Sapere Aude Editori) di cui è amministratore unico l’imprenditore abruzzese Alberto Leonardis. Come informa il Fatto Quotidiano, "oltre a lui, compaiono tra gli azionisti la Toscana Sviluppo 2.0 che fa capo al costruttore livornese Maurizio Berrighi e la Eco.Net SpA attiva nel settore delle telecomunicazioni. Poi ci sono un’impresa di consulenze di proprietà del pescarese Massimo Briolini e una specializzata in marketing guidata da Alberto Tivoli (con sede a Bologna). Più affini al campo dell’editoria sono la Portobello Spa (azienda retail quotata in borsa che possiede anche magazine e rivende spazi pubblicitari) e l’editore di riviste Giulio Fascetti." 

Leonardis già nel 2016 aveva rilevato Il Centro di Pescara da Gedi (all’epoca ancora in mano alla famiglia De Benedetti), per poi cederlo a sua volta nel 2019. Quanto basta per mettere in agitazione i giornalisti delle testate interessate il cui sindacato ha dichiarato diverse giornate di sciopero per il timore che il passaggio “a compratori estranei al mondo dei quotidiani" possa “disperdere un patrimonio editoriale radicato nei territori di riferimento. L’operazione in corso è particolarmente grave, nelle dinamiche e negli effetti, perché porterà alla distruzione dell’esperienza che da più di 40 anni rappresenta Finegil: un’informazione locale libera e indipendente legata a un grande gruppo editoriale”, si legge nel primo comunicato dei giornalisti rilasciato ieri. Questo ha garantito giornali di qualità in decine di province italiane. E’ evidente che l’intenzione, se confermata, di vendita a editori che mai hanno fatto questo mestiere, distrugge questo modello e indebolisce l’intero sistema informativo italiano”.


Fatte salve le legittime preoccupazioni occupazionali di giornalisti e dipendenti in un periodo di crisi generale che colpisce in particolar modo la carta stampata, dobbiamo dire che dal punto di vista della qualità dell'informazione tutta questa agitazione ci appare eccessiva. Risulta difficile ritenere "giornali di qualità", per fare un esempio, quotidiani come il Tirreno di Livorno, da sempre vicino all'amministrazione comunale che ha governato per decenni (salvo la parentesi cinquestellata del sindaco Nogarin) e dunque agli interessi dell'imprenditoria locale. Con un proprietario come De Benedetti, tessera n. 1 del PD, poteva essere davvero "un’informazione locale libera e indipendente"?


Come ricorda ancora il Fatto Quotidiano in un altro articolo, per Bruxelles, da noi “l’influenza politica continua a farsi sentire in modo significativo nel settore audiovisivo” e, sia pure in “misura minore”, in quello “dei giornali, a causa dei rapporti indiretti tra gli interessi degli editori e il governo, a livello nazionale così come a livello locale." Continua l'articolo: "Nel nostro Paese la maggior parte degli editori non stampa quotidiani e riviste perché spinta da una sana capitalistica voglia di guadagnare. In Italia invece i grandi editori sono spesso dei signori che fanno i soldi in altro modo: per esempio con le costruzioni (Caltagirone), con la sanità privata (Angelucci), con le auto (Agnelli-Elkann). Le loro fortune non dipendono dal numero di copie vendute, ma da altri affari molto più remunerativi che dipendono, quelli sì, dalle scelte della politica. Decidere se rendere edificabili o meno delle aree, se accreditare a livello regionale una clinica o se tassare i veicoli più inquinanti fa parecchia differenza nei loro bilanci. Essere proprietari di mezzi d’informazione permette così di blandire gli amministratori nazionali o locali più vicini ai propri interessi e di stangare gli altri."

Siamo dunque umanamente dispiaciuti per tutti i collaboratori e collaboratrici di quelle testate che, in conseguenza di queste cessioni, dovessero trovarsi, con le loro famiglie, in situazioni di disagio economico, ma per favore risparmiamo le geremiadi sui giornali "liberi e indipendenti". In Italia ce ne sono pochissimi, e non è certo il caso delle testate locali della Gedi dove i giornalisti hanno sempre aderito, per convinzione o convenienza, alla linea dettata da un editore tutt'altro che "puro", sia quando lo era De Benedetti che quando lo è diventato la famiglia Agnelli. Di certa "libera stampa" facciamo volentieri a meno.



sabato 26 settembre 2020

C'è scritto sul giornale

Perché si parli di sorteggio sui media nazionali ci vuole una sparata di Beppe Grillo. Che, per fortuna, ogni tanto la fa, costringendo i giornali e le tivù a parlarne. Naturalmente, la RAI governata dai partiti, e giornali e canali televisivi padronali lo fanno prendendo le distanze. In due modi: o ironizzando, a evidenziare come il tema sia talmente ridicolo da non meritare altro che un sorriso di sufficienza, o argomentando seriosamente sciorinando gli abituali luoghi comuni sulla Costituzione o citazioni più o meno a vanvera di Lincoln o Churchill. In entrambi i casi riescono a dimostrare una cosa sola: di ignorare tutto quello che riguarda la materia, non essendosi minimamente applicati allo studio della stessa.

Per fortuna esistono ancora, nell'informazione, alcuni spazi indipendenti frequentati da professionisti dalla mente abbastanza aperta. E' il caso de il Fatto Quotidiano che ha ospitato in questi giorni un articolo di Mario Staderini. Potete leggerlo per intero nell'immagine qui sotto.


Scoprire in questi rari casi che il tema non appassiona solo i pochi, ancorché convinti, frequentatori del nostro blog e i lettori del nostro libro o di quello di David Van Reybrouck, ci rasserena. E ci consola leggere quello che scrive in proposito il giornalista: "Il sorteggio può essere utile per la democrazia, oppure è roba da alchimisti? Chi fa passare il tema come l'ultima boutade di Beppe Grillo, con reazioni ironiche e paure antisistema, è affetto da grillofobia o da ignoranza."


E non possiamo che sottolineare altre frasi: "La crisi delle democrazie rappresentative è un fenomeno globale. Molti studiosi hanno indicato nelle elezioni il vero punto debole: non rappresentano la popolazione, cancellando i temi scomodi ai partiti e favorendo il prevalere dei gruppi di potere rispetto all'interesse generale", e "le assemblee di cittadini superano la contrapposizione tra maggioranza e opposizione, entrata in crisi in un'epoca di campagna elettorale permanente e di polarizzazione esasperata", terminando con "nelle assemblee di cittadini, che sono forme di democrazia rappresentativa (con la sorte che sostituisce le elezioni), si realizza al meglio il principio del conoscere per deliberare".

Certo, Staderini tende a sopravvalutare lo strumento del referendum: se nei due casi da lui citati si è avuto un esito "progressista", in altri casi che citiamo nel nostro saggio ci sono state bocciature secche di impronta omofobica. E anche l'idea delle Assemblee di Cittadinanza chiamate a "coadiuvare" il governo continua a sembrarci minimalista, nonché pericolosa. Il citato Van Reybrouck, insieme al politologo Terrill Bouricius (nell'ordine, nelle due foto sotto) hanno studiato un'architettura istituzionale alternativa al Parlamento decisamente più razionale quanto rivoluzionaria di cui abbiamo già parlato su queste colonne. Per quello che ci riguarda, continueremo a sostenere quella.



Siamo dunque contenti di vedere approdare, con una certa cognizione di causa, l'argomento del sorteggio come possibile strumento di governo sulle pagine di un quotidiano nazionale e confidiamo che il tema venga portato sempre più spesso alla ribalta e alla conoscenza di cittadini e cittadine abitualmente martellati, e frastornati, dal tifo partigiano che infiamma le cronache politiche dei giornali e dei talk show televisivi. C'è sempre più bisogno di una pacata riflessione lontano dalle risse strumentali dei politicanti in tivù e nelle piazze.



mercoledì 13 maggio 2020

Utopia, distopia, democrazia


Per il n. 19 di quest'anno il settimanale FilmTV si è dato come tema la Distopia. Nel cinema, naturalmente. Le riflessioni contenute nell'editoriale di Giulio Sangiorgio dal grande schermo si spingono però anche sul terreno della politica, ed è quello che ci interessa di più.
Vediamo prima il significato dei due termini (come definiti dalla Treccani):

utopìa s. f. [dal nome fittizio di un paese ideale, coniato da Tommaso Moro nel suo famoso libro Libellus ... de optimo reipublicae statu deque nova Insula Utopia (1516), con le voci greche οὐ «non» e τόπος «luogo»; quindi «luogo che non esiste»]. – Formulazione di un assetto politico, sociale, religioso che non trova riscontro nella realtà ma che viene proposto come ideale e come modello; il termine è talvolta assunto con valore fortemente limitativo (modello non realizzabile, astratto), altre volte invece se ne sottolinea la forza critica verso situazioni esistenti e la positiva capacità di orientare forme di rinnovamento sociale (in questo senso utopia è stata contrapposta a ideologia).

distopìa s. f. [comp. di dis- e (u)topia]. – Previsione, descrizione o rappresentazione di uno stato di cose futuro, con cui, contrariamente all’utopia e per lo più in aperta polemica con tendenze avvertite nel presente, si prefigurano situazioni, sviluppi, assetti politico-sociali e tecnologici altamente negativi (equivale quindi a utopia negativa).


Nel suo editoriale, Sangiorgio afferma che, in film e telefilm, "oggi le distopie non raccontano il fallimento di un pensiero alternativo al mondo come lo conosciamo, la caduta di uno slancio verso un futuro migliore, con regole diverse. No. Le distopie raccontano il mondo così com'è, basato su un sistema che nessuno mette in dubbio, neoliberista e mercificato, iperconnesso e tracciato, fatto di Realpolitik e fake news (...) ma non c'è nessuno che immagina un'alternativa a questo sistema. Sono distopie al presente, non al futuro. Non sono i fallimenti di un'utopia: sono possibili crisi di caratteri di oggi, pensieri negativi sul nostro presente. Sono qui, ora, anche se riportano date futuribili. (...) La distopia è quello che c'è già perché oggi nessuno prova a immaginarla, l'utopia, il luogo del bene, il luogo che non c'è."
E qui passiamo a quello che ci riguarda: "E' una questione politica. (...) L'impossibilità di pensare a un'alternativa."

In realtà, chi ci segue lo sa, qualcuno un'alternativa l'ha pensata: David Van Reybrouck nel suo "Contro le elezioni" e più modestamente noi con "Democrazia davvero". Come Sangiorgio siamo consapevoli di vivere una distopia: quella del sogno di un governo del popolo che ci hanno fatto credere di aver realizzato col sistema rappresentativo basato sulle elezioni. Ma come ci insegna Simone Weil, in questo sistema che continuano a spacciarci per democrazia, di democratico non c'è davvero niente.


Così, quando l'utopia si è realizzata, l'ha fatto in forma di oligarchia o Aristocrazia Elettorale: una distopia che ci accompagna, avvolge, sommerge e incatena addormentando il pensiero e negando ogni speranza per il futuro. E quando proponiamo il nostro progetto capita perciò spesso che ci venga detto: "Bello, ma è un'utopia". E noi rispondiamo che, sì, è un'utopia, cioè il sogno a cui dobbiamo volgere le nostre menti e indirizzare la nostra azione. L'alternativa è quella di continuare a vivere l'attuale, disperante distopia, lamentandocene giorno dopo giorno e immaginando che questa possa cambiare grazie all'opera di un "uomo diverso" (se non un "uomo forte") uscito chissà per quale miracolo da una macchina costruita per produrre solo replicanti sempre più scadenti degli esemplari di politici di professione funzionali al sistema, interessati solo alla propria rielezione e al mantenimento dei propri privilegi.

A noi la distopia a cui ci hanno condannato non piace, e per questo continueremo a perseguire la nostra utopia e sognare un'alternativa. Quella di una reale democrazia.




domenica 22 marzo 2020

Cosa cambierebbe in una vera democrazia



In questi giorni, frastornati da notizie contraddittorie sull'emergenza sanitaria da coronavirus (chiudere tutto... lasciare tutto aperto... quarantena per tutti... immunità di gregge...), ci vogliamo tenere più che mai alla larga dalla politica vissuta come tifo da stadio. Non ci interessa se il governo in carica sta facendo bene o se altre forze politiche avrebbero fatto meglio. Preferiamo riflettere su come avrebbero potuto essere le cose se al posto di questa pseudo-democrazia gestita da un'Aristocrazia Elettorale di sedicenti Rappresentanti del Popolo ci fosse stata una REALE democrazia, basata su un'architettura istituzionale come quella di cui abbiamo parlato in un precedente post e nella quale le decisioni venissero prese da "normali" cittadini chiamati a occuparsi della cosa pubblica a vario titolo e per periodi di tempo diversi ma comunque non più lunghi di due o tre anni UNA SOLA VOLTA NELLA VITA.




La riflessione è molto semplice: da quello che si riesce a desumere dalle informazioni (talvolta quasi terroristiche) con cui veniamo quotidianamente bombardati, per l'Italia il problema sostanziale è che se il numero di malati gravi superasse un certo livello, le strutture non sarebbero più in grado di gestire la situazione. E la causa, come anche giornali abitualmente filogovernativi ormai ammettono tranquillamente, è che i politici eletti negli ultimi venti-trent'anni hanno lavorato a un metodico, pervicace smantellamento delle strutture sanitarie pubbliche a favore di una sanità privata che si è parallelamente arricchita a dismisura (e per riuscirci non ha lesinato cospicue bustarelle ad amministratori di tutti i livelli: basti il caso di Formigoni per tutti). In dieci anni, scrive tra gli altri l'Huffington Post, sono stati tagliati 37 miliardi alla sanità pubblica.




Questo è stato possibile perché a prendere decisioni di governo ci sono dei politici di professione mossi solo dal proprio interesse e da quello di chi li finanzia più o meno legalmente. Ed eccoci al punto: come andrebbero le cose se a decidere come spendere il denaro pubblico invece degli attuali venditori di fumo preoccupati solo di mantenere la propria poltrona e servire i loro sponsor ci fossero dei "normali" cittadini? Pensiamoci.




Se foste voi, a essere chiamati - per tre giorni o per tre anni - a fare il vostro dovere di cittadini scegliendo se aumentare o diminuire la spesa della sanità pubblica, cosa decidereste sapendo che, terminato il vostro breve "servizio civile", tornereste a essere un normale cittadino che usufruisce dei servizi sui quali siete stati chiamati a legiferare? Vi preoccupereste di arricchire qualche speculatore privato, o pensereste a garantire per tutti gli anni a venire un servizio pubblico efficiente e gratuito per voi e la vostra famiglia?

Rifletteteci: se negli ultimi vent'anni fossimo stati noi cittadini, a turno, a prendere le decisioni, sarebbero stati tagliati quei 37 miliardi alla sanità pubblica? O saremmo tra le nazioni in grado di affrontare serenamente l'emergenza sanitaria di questi giorni invitando sì alla prudenza e al buon senso, ma senza dover chiudere in casa un'intera nazione perché NON CI SONO STRUTTURE SANITARIE SUFFICIENTI?
Forse la nostra insistenza sul progetto (utopistico?) di abbandonare questa finta democrazia per provare a realizzarne una VERA potrà sembrarvi una fissazione un po' balorda da accogliere con un sorriso di compatimento, ma i numeri (e i possibili morti per insufficienza di sale di rianimazione) ci costringono oggi a riflettere seriamente. Il fatto è che quelli che vi illudete essere i vostri "rappresentanti" non si occuperanno MAI del vostro/nostro interesse (basta vedere qui, a ennesima conferma, qual è la loro unica preoccupazione), ma solo del loro e di quello dei poteri economici che li sostengono.



martedì 28 gennaio 2020

Ritrovare la speranza


Un numero sempre maggiore di persone decide di non votare più. Se alle elezioni regionali di Emilia e Romagna l'affluenza è stata ancora abbastanza alta (oltre il 60%) perché una volta di più i comunicatori dei due opposti schieramenti, Salvini da una parte e le Sardine-piddine dall'altra, sono riusciti a far credere che fossero in ballo le sorti dell'intero pianeta o quasi, in Calabria ci è fermati a un mesto 44%, in linea con quanto succede ormai da almeno vent'anni: un po' di cifre (e riflessioni) le abbiamo postate qui. Altre potete trovarle qui.) 

Cittadini e cittadine disertano le urne per vari motivi: alcuni non trovano più un organismo politico che ne rappresenti le istanze, altri lo fanno per protesta contro la pessima gestione della cosa pubblica o per sfiducia nell'attuale ruolo della politica e/o nel comportamento dei politici quotidianamente pescati con le mani nel sacco in casi di corruzione e intrallazzi vari.
Quasi l'80% degli astenuti totali in precedenti elezioni ha dichiarato di non potersi o non volersi collocare politicamente (fonte: Ipsos Public Affairs). Secondo un’indagine di Cmr Intesa Sanpaolo per La Stampa, la maggioranza degli elettori italiani (52%) , non si sente vicina ad alcun partito: “A prendere sempre più piede sembra quindi essere il partito dell’astensionismo, o del potenziale astensionismo […] Per il 37,4% i politici non si interessano alla gente comune, per il 27,5% votare è inutile, tanto le cose non cambiano e per il 15,2% i partiti fanno schifo. Accanto a questa distanza che sembra dividere gli elettori dal mondo politico, c’è la concezione che le tradizionali categorie di destra, centro e sinistra non abbiano più significato (questo è vero per il 75% degli intervistati)”.

Nell'insieme, delusione, sconforto, frustrazione, disgusto. E, soprattutto, rassegnazione: chi ha deciso di astenersi per sempre, non si aspetta più niente dalla politica.



E se la Sardine di turno (come prima di loro i Girotondi...), con le loro facce fresche di gioventù sono brave a riportare qualcuno al voto contro il Nemico, anch'esso di turno (prima i Comunisti oppure Berlusconi, ora Salvini e il Ritorno del Fascismo, domani chissà), appena passata l'ubriacatura e verificato una volta di più che i politici, anche nell'Emilia che fu "rossa" ed è ormai tristemente piegata ai diktat europei come il resto del Paese, restano dei meri professionisti in carriera interessati solo a sé stessi e abili unicamente nel candidarsi a nuove poltrone (tanto ci sono ogni mese altre elezioni, e quando i posti sono già tutti occupati basta creare una nuova provincia o dividere in due qualche regione, per farne nascere altri dal nulla), torneranno lo sconforto, il disgusto e la rassegnazione. Inevitabile, quando giornali e televisioni ti informano quotidianamente che non c'è alternativa: o la democrazia parlamentare o la tirannia!
Peccato che sia falso. Oltre a quella che chiamano erroneamente (e sfacciatamente!) democrazia e alla tirannia (che ne è uno dei naturali esiti, ne abbiamo già parlato), esiste una terza possibilità: il passaggio a una reale democrazia senza partiti, parlamento e politici di professione. 


Per sapere come potrebbe funzionare, nella complessa civiltà odierna, una vera Democrazia che metta il potere decisionale davvero in mano al popolo, leggetevi il libro di Van Reybrouck o il nostro. O, per cominciare a farvene una mezza idea, date un'occhiata al resto del blog, e in particolare a questo post. Perché non c'è niente di più triste e distruttivo della rassegnazione. E sperare si può ancora e si deve, per quanto difficile o utopico possa sembrare riuscire a cambiare sistema.
Sapere che un altro modo di far politica esiste, è il primo passo per tornare a sorridere.







A che serve un presidente?

Con la grancassa di giornali e tivù (e inevitabili riverberi sui social) sta andando in onda l'elezione del presidente della repubblica....